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IL CAREGIVER: QUESTO SCONOSCIUTO

a cura del dr. Giuliani Gian Carlo

Se qualcuno in questo momento mi chiedesse cosa è la felicità non avrei dubbi: felicità è aprire la porta della camera da letto e scoprire che dorme. Una moglie  

(citato da A. Tognetti “Le problematiche del caregiver” –  Giornale di Gerontologia 2004; 52:505-510)

 

Con il termine “caregiver” (letteralmente “donatore di cura”), termine ormai da tempo entrato nella nostra quotidianità assistenziale, intendiamo l’individuo responsabile che, in un ambito domestico, si prende cura di un soggetto dipendente e\o disabile.

In pratica è colui che organizza e definisce l’assistenza che il Paziente necessita, risultando generalmente essere un familiare (ed in tal caso è il familiare di riferimento), ma non necessariamente, potendo essere un conoscente, un amico, un vicino, un volontario od altro. In questi ultimi anni si riscontra, con frequenza sempre maggiore, una nuova figura, il caregiver-collaboratore (o badante), rappresentato di solito da un immigrato\a che accudisce la persona non-autosufficiente, sotto la verifica, diretta o indiretta, di un familiare.

Molti sono gli studi condotti per analizzare il “profilo” dei caregivers, questi soprattutto in due ambiti specifici: la demenza senile e le cure palliative per patologie oncologiche. Sono inoltre state definite alcune Scale di Valutazione per definirne profilo ed attitudini [citiamo la “Caregiver Burden Inventory” (CBI)] o quantificazione e definizione del livello di stress [“RSS”]. 

 

 Il Rapporto Censis del 1999 (“La Mente Rubata”)

Certamente lo studio più conosciuto e riportato in letteratura è quello che è stato condotto in Italia nel 1999 dal Censis in collaborazione con l’AIMA, su un campione nazionale di 802 caregivers di Pazienti affetti da Malattia di Alzheimer ma non per ciò istituzionalizzati.  Pur se non recente (1999) e molto settoriale (Pazienti dementi), tale rapporto presenta però ancora elementi di particolare rilievo per la quantità di informazioni che sono state dallo stesso ottenute.

Da tale Rapporto apprendiamo infatti che il caregiver è prevalentemente donna (73%) aumentando percentualmente man mano che la malattia avanza (81,2%). Sempre in maniera proporzionale alla gravità della malattia, aumenta la percentuale dei caregivers che vive con la persona malata, passando dal 65 al 75% negli stadi più avanzati di malattia.  Nella rete assistenziale un grosso ruolo è svolto dalla solidarietà intergenerazionale, risultando il caregiver nel quasi 50% costituito da figli\e e nel 34% da coniugi\conviventi. I caregivers, pur se questo dato può risultare suscettibile di parziali modifiche nel tempo, risulta ancora in età attiva nel 70% dei casi, con ben il 32% sotto i 45 anni, mentre il 18% ha un’età compresa tra i 61 ed i 70 anni ed il rimanente 12% addirittura oltre i 70 (generalmente i coniugi\conviventi). Il caregiver nel 32% circa è pensionato, in circa il 30% è casalinga, nel 20% è impiegato\insegnante e così via. 

I tempi dedicati alle cure sono mediamente di 7 ore di assistenza diretta ed 11 di sorveglianza, diventando rispettivamente di 10 e 15 ore con l’aggravarsi della malattia. L’aiuto che il caregiver riceve da altri familiari o da personale a pagamento servono prevalentemente per le cure igieniche (circa il 50%) e meno per la sorveglianza.

Importante, inoltre, appare il rilievo che l’attività svolta dal caregiver non è correlata alle reali esigenze del Paziente, per carenza di informazioni da parte del personale sanitario che dovrebbe sovraintendere alle attività assistenziali. Solo in meno del 50% le fonti informative effettive dei caregivers sono infatti rappresentate dal Medico Specialista, mentre buone percentuali sono rappresentate da fonti meno sicure (mass-media, parenti, altro) e basse percentuali da fonti che dovrebbero risultare più attendibili (medici di base ed associazioni di familiari di malati).

Ancora più interessanti risultano i dati relativi alle conseguenze sulla salute fisica dei caregivers impegnati nell’assistenza. La maggioranza dei soggetti intervistati lamenta stanchezza (62% circa), insonnia (più del 50%) e in grande percentuale (oltre il 70%) ha incominciato ad assumere farmaci (ansiolitici, antidepressivi ed ipnoinducenti). Importanti sono state le ripercussioni sullo stile di vita, con un impatto rilevante sulla vita sociale e privata (oltre il 60%), accompagnato da un’importante senso di svuotamento emotivo (circa il 40%) e vissuto di rinuncia (60%). Nell’ambito lavorativo è emerso che i 2\3 dei caregivers (nella quasi totalità donne) ha dovuto lasciare il proprio lavoro ed in parti minori è passato al part-time o ha dovuto cambiare attività, senza dimenticare la quantità di ore perse in quanto non lavorate mensilmente. In tal modo la malattia del Paziente ha, direttamente o indirettamente, creato un danno anche di natura economia, non solo facendo lievitare le spese, ma anche riducendo gli introiti riconducibili all’attività lavorativa. In ambito familiare, inoltre, si è evidenziato un minor accordo con importanti alterazioni relazionali tra i vari componenti della famiglia stessa. Un’analisi più approfondita permette inoltre di individuare più categorie di caregivers: quelli per scelta, quelli per necessità e quelli per designazione famigliare, risultando tale classificazione basata sulle loro condizioni di natura economica, sulla loro preparazione in ambito assistenziale, sul ruolo svolto all’interno della famiglia e sul grado relazionale e sul rapporto interpersonale con il Paziente.

Sulla base inoltre dell’età e del ruolo rivestito nel nucleo famigliare si individuano più figure tipiche di caregivers, che vanno dalle mogli totalmente dedicate all’assistenza (con scarse relazioni sociali ed aiuti familiari, con problemi psico-fisici e relazionali e per ciò particolarmente logorate e vulnerabili), alle figlie multiruolo (contemporaneamente figlie, mogli e madri, risultando impegnate in più fronti ed anche loro per ciò vulnerabili), ai neo-caregivers di Pazienti in fasi iniziali di malattia e perciò non ancora molto coinvolti e danneggiati, fino ai figli e nipoti limitatamente coinvolti nei primissimi stadi di malattia del Paziente.

Analoga indagine è stata condotta nello stesso anno in California, su Familiari di Pazienti affetti da malattie cerebrali croniche (Alzheimer, esiti ictus e M. Parkinson), dando i seguenti (simili) risultati:  

-          il 76% dei caregivers erano femmine

-          l’età media dei caregivers era pari a 60 anni, con un range tra i  35 e i 98 anni

-          il 78% abitavano con il Paziente

-          53% di questi caregivers avevano meno di 65 anni

-          un 18% aveva dovuto abbandonare ed il 45% ridurre il proprio lavoro

-          il 58% mostrava sintomi depressivi

 

L’indagine Censis-Aima del 2006

A distanza di 7 anni è stata condotta una nuova indagine da parte del Censis, sempre con la collaborazione dell’Aima, permettendo anche di valutare cosa fosse concretamente cambiato con il tempo, anche e soprattutto dopo l’attivazione da parte delle ASL di alcuni servizi specificamente rivolti ai Pazienti con M. di Alzheimer.

Si è così appreso che in circa il 67% i Pazienti hanno avuto contatti con le UVA (o Unità Valutative Alzheimer), che rappresentano per circa la metà dei soggetti coinvolti l’unico loro punto di riferimento terapeutico. A fianco di ciò però l’indagine sottolinea come l’offerta pubblica risulti ancora fortemente inadeguata sotto il profilo dell’assistenza socio-sanitaria. Pur se nettamente migliorate risultano infatti ancora basse le percentuali dei Pazienti che usufruiscono dell’assistenza domiciliare (attuali 18,5% contro il 6,1% dell’indagine precedente), con una media di assistenza pari a circa 7,6 ore settimanali. Di contro è però aumentata la % dei Pazienti che frequentano continuativamente i Centri Diurni Alzheimer (il 25% circa contro l’8% precedente).

Dove le 2 indagini hanno maggiormente evidenziato differenze è il ricorso all’assistenza di cosiddette “badanti”, attuata nel 51% circa dei casi con convivenza con l’ospite in quasi due casi su tre. Nel 95% dei casi la badante è di sesso femminile, nell’80% è di origine straniera e nel 90% non è dotata di alcun titolo professionale specifico che ne faccia preferire l’utilizzo.

 Questo a sottolineare le seguenti considerazioni:

-          che la popolazione italiana pare disdegnare totalmente tale tipo di attività

-          come quest’ultima sia ormai delegata ad Operatori stranieri di professione (fenomeno particolarmente accentuatosi negli ultimi anni)

-          come sia necessaria una specifica formazione per questo personale, formazione che, partendo innanzitutto da conoscenze linguistiche di base e passando attraverso alle conoscenze dei bisogni dei Pazienti in termini di mobilizzazione, igiene, alimentazione ecc., arrivi, sappia giungere ad una adeguata capacità ”olistica” nella  gestione a 360° di questi Nostri Pazienti.

L’ incremento nell’utilizzo di badandi spiega facilmente il dato evidenziato dalle due indagini di un progressivo calo del carico assistenziale del caregiver, passato dalle 7 ore di assistenza diretta ed alle 10,8 di sorveglianza rilevate nel 1999 alle 6 di assistenza ed alle 7 di sorveglianza rilevate successivamente nel 2006. Per il resto l’ultima indagine Censis conferma quanto evidenziato in quello precedente, confermando come l’assistenza sia soprattutto a carico del sesso femminile (76,6% dei caregivers è donna), confermando anche come nel caso di Pazienti uomini ad occuparsene siano le mogli (qualora presenti), mentre nel caso di Pazienti donne ad occuparsene sono soprattutto le figlie. Tralasciamo di considerare gli ulteriori aspetti considerati dall’indagine Censis, aspetti di carattere economico, che potranno essere analizzati in altro ambito.

Concludiamo queste brevi noti, riportando alcune righe tratte da www.heart-failure.co.uk, righe valide in generale per gli affetti da tutte le patologie e non per i soli cardiopatici: “Il ruolo chi aiuta un proprio caro è definito da vari fattori: il tempo a disposizione, la vicinanza al paziente ed alle (eventuali) strutture sanitarie (e\o assistenziali) e la capacità di gestire la situazione. Il grado di impegno è variabile: dalla telefonata quotidiana, ad accompagnare il paziente dal medico, fino ad assumersi molte altre responsabilità. Indipendentemente dal livello di coinvolgimento, è bene ricordare che il compito è importante, può fare davvero la differenza nella vita del proprio caro, ma anche nella propria. Chi condivide la vita di una persona cara deve prendere in considerazione quanto segue: Ascoltare, Imparare, Sostenere, Partecipare, Condividere, Stringere Rapporti, Comprendere ecc.”

 

Aggiornato il 27-04-2015 alle ore 23:04:21

 

Bibliografia Scientifica Pet-Therapy

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